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Alfonso Scariot, capitano di ventura

Alfonso Scariot, capitano di ventura

Published Oct 18, 2023 Updated Oct 18, 2023 Culture
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Alfonso Scariot, capitano di ventura

In nome di San Giorgio

Il ripetitivo suono degli zoccoli che calpestano l’antica strada risuona per tutta la lunghezza della stretta valle. Il verde degli alberi che si inerpicano lungo gli scoscesi pendii ai lati del letto d'erba verde chiaro che compone il fondo della valle stacca in modo netto quest’ultima dall’azzurro intenso del cielo, macchiato di bianco da qualche sporadica nuvola. Il leggero e costante fruscio dell'unico ruscello che scorre nel cuore della valle, alimentato dalle cascate che fanno capolino tra la fitta vegetazione della foresta, accompagna il canto del solitario di usignolo. Un placido vento attraversa la valle portando l’aria fresca dalle montagne innevate verso la pianura.  

“Mio caro Fener, abbiamo il vento contro” dice Scariot mentre, puntandosi sulla sella di cuoio, stende la mano per carezzare il collo della sua cavalcatura. La strada che ha imboccato, a detta del prete del villaggio che giace all’ingresso della valle, dovrebbe portarlo fino all’altezza della neve che si scoglie sul collo della montagna in attesa del ritorno del suo inverno.  

Astolfo Scariot è un giovane capitano di ventura, il cui esercito si è diretto verso Firenze per prendere parte come mercenari alla lotta dei guelfi contro i ghibellini. Lui ha perso il lavoro a causa della rivalità tra la corte Medicea e la famiglia Scariot, la quale non nasconde che il Papa Giuliano de’ Medici abusa dell’ottusità della chiesa, indugiando in peccati capitali senza neanche sforzarsi di nasconderlo.  

Il cavallo si muove a passo d’uomo, in quanto chi non ha meta non sente fretta. Un improvviso boato mette in fuga i pochi volatili appollaiati sui rami degli alberi della valle e rende nervoso il cavallo, che il cavaliere riesce a calmare solo dopo un gran lavoro di redini. “È il suono di una campana, ma è così intenso che sembra di starci sotto!”. Oltre il ruscello, ed oltre il letto erboso della valle, sulla guancia del versante destro della montagna, la punta del tetto di un campanile riesce a malapena a fare capolino, nascosta dai grossi pini e abeti che dominano incontrastati il fianco ripido della montagna.  

“E così eccola, la chiesa di San Giorgio, l’unica chiesa dedicata a suo nome. È lì che il malingo, indignato per le eroiche gesta del Santo contro il suo emissario, ha deciso di ripresentare la sua irabonda natura”.  

 

Il prete gli aveva infatti detto che grandi pericoli giacciono in agguato in quella valle per chi va alla ricerca di ciò che non ha perduto.  

“Esiste una chiesa, caro cavaliere, la cui prima pietra è stata posata molti secoli fa da una congrega di frati Francescani, di cui oggi rimangono solo poche memorie tra i più anziani. Si di dice che un enorme male sia stato evocato all’altare di quella chiesasono le parole pronunciate dal prete del villaggio che sorge all’entrata della valle, mentre si fa il segno della croce “e si dice che che non sia più permesso, a chi segue il cammino di cristo, di metterci piede”. È ormai nota in tutti i villaggi vicini come la chiesa dei malcapitati, che si mostra unicamente a chi affronta il suo cammino in solitudine, e cercando riparo al suo interno non riesce più a far ritorno alla luce del sole. 

“Prima che Santo” rispose Astolfo al prete “San Giorgio era un uomo, proprio come lo sono io. Sono sicuro che anche se fallirò il mio intento di liberare la chiesa, la dimora del Signore, dal maligno San Pietro mi aprirà i cancelli per raggiungere le grazie del nostro Signore.” 

“Se è questo il tuo volere, va con Dio” gli rispose il prete facendogli cenno di chinare il capo per ricevere la benedizione per i suoi intenti.  

 

Il cammino pareva essere così breve dal limitare del villaggio, eppure ora sembrava richiedere più del previsto, come se ad ogni ansa del ruscello la strada si dilatasse sempre più.  

 

La stretta valle, con le sue ripide pareti, nasconde il sole facendo scendere la tenebra più in fretta del normale.  

Un giaciglio è presto pronto, e mentre il fuoco arde al centro dell’accampamento, illuminando con la sua flebile luce il cavallo legato al terreno e il suo cavaliere, la cui armatura leggera risplende ogni qualvolta una piccola fiamma osa troppo, un pezzo di carne infilzato in uno spiedo viene cotto. La lunga serata è accompagnata dal chiarore della luna piena, i cui bianchi raggi illuminano il prato attorno ad Alfonso. Il cavallo, dopo essersi abbeverato a grandi sorsi delle fresche acque del ruscello, sta ruminando placidamente. È un magnifico esemplare, alto un metro e settanta al garrese, completamente bianco. È coperto da un drappo azzurro su cui è presente lo stemma bianco della famiglia Scariot. “Lo sappiamo entrambi che non c’è posto per me al castello” disse Alfonso, mentre si passava tra le mani lo spiedo, seduto scaldandosi i piedi sul fuoco. “Al primogenito tocca l’eredità, e al più piccolo essere prete. A tutti gli altri tocca servire in battaglia, ma io battaglie n-” un fremito gelido scuote la foresta immersa nel buio della notte, facendo correre ovunque le bestie che abitano l’oscurità. Alfonso si alza, mettendo mano alla elsa della spada grida a gran voce “chi và là!”. Ma nulla. Ogni rumore che occupava la valle ora tace all’improvviso. Solo il lento fluire dell’acqua e lo scricchiolio del fuoco fanno una leggera eco.  

Un improvviso vento si alza dalla foresta, che sembra trarre origine dalla vecchia chiesa. Il fruscio degli alberi aumenta d’intensità, diventando un boato assordante. Il rumore assordante sembra trasportare una voce “hai fatto male”, con un tono di odio dice “nulla evasio est”. Nuvole nere si frappongono alla luna con velocità innaturale, soffocando la valle in un'oscurità nera e quasi palpabile. Solo il piccolo fuoco permette al cavaliere di vedere cosa accade giusto attorno a lui. Piccole luci compaiono al limitare del buio. Il cavallo si impenna, nitrisce, combattendo con ogni sua forza contro la corda che lo tiene legato in quella valle di morte. Le luci si muovono dall’alto in basso, ritmicamente, a coppie. Si stanno avvicinando al fuoco. Finalmente il cavallo riesce a liberarsi con un forte strattone dal giogo che lo tratteneva, e fugge di gran carriera nitrendo in direzione del villaggio. Alfonso, con la spada sguainata, fissa esterrefatto il mare di luci che lo circonda da ogni lato. Il suo respiro affannoso si condensa contro l’elmo in ferro, mentre il suo cuore batte così forte da poter essere sentito nelle orecchie. Ecco che una coppia di esse si avvicina abbastanza alla tremolante luce delle fiamme per mostrarsi nella sua vera forma. Due grosse zanne bianche riflettono la luce rossa delle braci. Il labbro superiore è teso a mostrare due file di denti. È il naso di un lupo. Alfonso si rende conto di essere circondato da una dozzina di lupi. Mosso dal terrore che permea ogni fibra del suo corpo, il cavaliere grida “fatevi sotto, servi di Asmodeo!”. La spada riflette la luce del fuoco. Il capobranco si fa avanti ringhiando, una bestia magistrale, degno servo del demonio pensa Alfonso. Un fulmine attraversa il cielo, illuminando con la sua luce blu la vallata e, per un breve istante, i lupi si presentano nella loro terribile maestosità. Un altro boato terribile esplode dentro alle orecchie di Alfonso, facendolo cadere atterra e facendogli perdere la spada. Disorientato, non riesce né ad alzarsi né ad aprire gli occhi. L'armatura comincia a pizzicare, a sfregolare, ed un altro boato lo rende sordo.  

Quando riesce finalmente ad aprire gli occhi e a riprendersi è mattino. Intontito, si mette a sedere, incredulo di essere tutto d’un pezzo, controllandosi le braccia e le gambe.  

I primi fiochi raggi del sole illuminano le ceneri fumanti del focolare. Una leggera foschia impedisce di vedere a pochi metri oltre l’accampamento. Si notano dei grossi solchi nel terreno, come se una grossa bestia fosse strisciata faticosamente fuori dal terreno, rovesciando le zolle di terra, disposti dove la sera prima erano i lupi.  

Alfonso, incredulo, non riesce a capire se la lotta della sera precedente fosse avvenuta per davvero o fosse stata un sogno. Però di Fener non c’è traccia. Il cavaliere si alza e raccoglie la sua spada da terra, marciando verso la chiesa dei malcapitati attraversando a passi pesanti il sentiero nascosto dalla nebbia.

Il limite che separa la vallata dalla foresta sul pendio è netto. Un imponente muraglia di alberi dal grosso fusto bruno e gli aghi accuminati sembrano voler serrare il passaggio al sentiero. Il cavaliere comincia la scalata, inerpicandosi tra le grosse radici conficcate nel terreno nero, che frana sotto ogni suo passo.  

Dopo varie ore di cammino ecco che si vede un piccolo spiraglio di luce filtrare tra il fitto fogliame. Lo spettacolo che lo attende oltre il confine della foresta è molto diverso da ciò che si aspettava. Una piccola chiesa bianca, con un campanile anch’esso bianco, si erge al centro di un prato d’erba verde chiaro, adornato di piccoli fiori rosa disposti a gruppetti, sparsi qua e là.  

La chiesa, il cui ingresso è preceduto da un porticato a colonne doriche, è disposta in modo che dall’altare si possa vedere la vallata e il villaggio. La foschia è scomparsa, lsaciando il posto al cielo sereno.  

Alfonso estrae la spada e a grandi falcate si dirige verso l’entrata della chiesa. Il portone è aperto. È stata evidentemente abbandonata con grande fretta. Drappi e tonache giacciono lungo la navata e sulle panche. Attraversando il porticato sente una sgradevole sensazione, come se un abominio fosse in sua attesa. I suoi passi rimbombano nella struttura, e la sua armatura sbatte ad ogni passo producendo rumori metallici. Si ferma davanti ad una tonaca abbandonata a terra. Con la punta della spada la smuove, rendendo evidente che non è vuota ma che c’è qualcosa al suo interno. Un grosso sacco bianco sbuca da sotto al cappuccio: sembra che una qualcosa avvolto da una tela sia stata nascosta al suo interno. Il presentimento della vicinanza del maligno si fa sempre più intenso e vivo. Alzando lo sguardo all’altare, si vede riflesso in una coppa d’oro posta su di esso, e dietro di lui una figura enorme che a fatica si incastra e spinge il suo corpo all’interno della porta della chiesa.  

Alfonso si gira di scatto e con orrore prende coscienza della terribile creatura posta dal maligno a guardia di quel luogo. In un istante si rende conto che le tonache non sono mai state abbandonate dai loro proprietari, e che quella in cui ha messo piede non è più una chiesa, ma un cimitero. Davanti a lui, ad un paio di passi dalla punta della sua spada, due grosse zanne coperte di pelo bruno, una serie incalcolabile di occhi neri disposti su una disgustosa testa rotonda e coperta di peli. Lunghe zampe pelose e ricurve che dipartono da un corpo obbrobrioso.  

Asmodeo in persona si presenta davanti ad Alfonso con le sembianze di una gigantesca tarantola. Sopra di essa un rosone in vetro decorato con una rappresentazione di San Giorgio a cavallo mentre impala il drago. L'unico suono che rieccheggia nella chiesa sono i profondi respiri di Alfonso, i movimenti dell’aberrante creatura sembrano non produrre suoni.  

“Ecce alius martyrum” sono le parole che provengono da quel corpo informe, la creatura comunica con una voce sibilante mentre muove i cheliceri posti davanti alla sua bocca bavosa. Alfonso stringe la spada con due mani per non perdere la presa, il terrore folle che annebbia la sua mente non gli permette di pensare. Con una voce fioca e tremolante ripete “Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam”. Indietreggiando a passi indecisi, Alfonso calpesta il corpo morto del frate. Puntellando la spada nella tunica, si piega sulle ginocchia e con un colpo di reni alza le braccia scagliando il cadavere contro la creatura, la quale usa subito le due zampe anteriori per rimuovere la tunica che gli è finita sugli occhi. Alfonso sfrutta questo diversivo per scappare dietro all’altare. Sotto al pallio bianco che copre il marmo dell'altare si nasconde un piccolo cancelletto in ferro nero. Non sa se sia un'antica via di fuga, ma è difficilmente peggio di dove si trova adesso. La creatura si è liberata con grande velocità ed ora sta attraversando la navata velocemente mentre rovescia le panche con le lunghe zampe. Con un paio di calci Alfonso rompe i cardini del cancello, che cade lungo quella che sembra essere una scalinata. Il ragno enorme è già con il corpo sopra l’altare, ma non ha visto il passaggio. Fissa Alfonso con le sue schiere di occhi disgustosi, in attesa di un suo minimo movimento per dare inizio all'attacco. Tutto si aspettava, fuorché Alfonso saltasse verso di lui. Con un balzo la sua preda scompare all’improvviso. La cerca subito con foga, frugando con le zampe il pavimento di marmo e scoprendo l’inganno del passaggio. Una furia ceca pervade la disgustosa creatura, che cerca di incastrarsi con tutte le sue forze nella piccola apertura, rompendo la mensa dell’altare. Sta per infilare le lunghe zampe pelose dentro alla catacomba senza via di fuga, quando un fulmine di luce argentata lo colpisce tra gli occhi. La creatura indietreggia, cercando di pulirsi con le zampe da quella cosa, inutilmente.

Una punta di lancia esce lentamente dalla cripta, al cui collo è legato uno stendardo triangolare rosso. Il guanto in ferro di Alfonso sorregge l’asta, e il cavaliere risale dalle tenebre con rinnovato vigore. La bestia grida “Eques ruber!” ed in preda ad un terrore folle tenta la fuga, ma viene presto raggiunta dal cavaliere che al grido di “Pro Sancto Georgio!” le si fa sotto inseguendola per la navata maneggiando la reliquia che giaceva nella catacomba, la sacra lancia che San Giorgio usò per sterminare il drago. Il servo di asmodeo si lancia di gran lena verso il portone della chiesa, ma un accecante fascio di luce lo colpisce subito prima di raggiungere l’uscio. Alfonso non attende altra occasione e conficca la lancia all’interno della creatura per tutta la sua lunghezza. Con un terribile grido, le zampe della bestia si involgono lungo il corpo. 

La battaglia è finita, il servo di lucifero è stato sconfitto. Il cavaliere estrae la lancia dalla massa disgustosa ma ormai resa inerme, e si dirige fuori dalla chiesa per stendersi nel prato d’erba verde accanto ai fiori.  

 

#note:

nulla evasio est : non c'è via di fuga, non c'è modo di sfuggire.

Ecce alius martyrum : ecco un altro martire.

Non nobis, Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam : non a noi, o Signore, non a noi ma al nome tuo dai gloria; è il motto dei cavalieri templari Ordo Templi.

Eques ruber! : il cavaliere rosso! nella cultura cristiana San Giorgio è associato al colore rosso.

Pro Sancto Georgio! : per San Giorgio! /in nome di San Giorgio!

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