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una nottata come tante altre

una nottata come tante altre

Published Apr 19, 2023 Updated Apr 19, 2023 Culture
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una nottata come tante altre

Le sirene gridano di lasciare il passo e i lampeggianti blu illuminano la notte risplendendo in modo bizzarro sui segnali stradali che riempiono le carreggiate. Mentre l’ambulanza sfreccia tra le auto che fanno il minimo sforzo per spostarsi, io cerco la luna nel cielo, sperando che illumini la notte così non dovrò cercare la pila per illuminare gli indirizzi delle strade dal finestrino, alla ricerca della casa in cui la nostra squadra deve intervenire. “Brutta faccenda questa” mi dice l’autista mentre giocherella con la matrice dei pulsanti per regolare la sirena “il centralino non ci ha detto niente di utile”. Estraggo il telefono dalla tasca della divisa per guardare l’ora da segnare nel foglio di intervento, ma mi ritrovo a fissare lo schermo superficialmente, lo guardo illuminarsi e spegnersi tra le mie mani. “Segna meno dieci all’una” mi dice l’autista “mancheranno almeno altri quindici minuti prima di arrivare”.

Nell’approcciare il complesso di appartamenti l’autista spegne la sirena, la gente si lamenta se a quest’ora ci si presenta in sirena, e nessuno ha la forza di un'altra discussione con degli sconosciuti. “eccolo, 26/A. scendi col DAE, lo zaino e il kit ventilazione, io prendo il telo portaferiti e il monitor”. Salto dal mio sedile all’asfalto con i piedi uniti; è come un mantra, lo faccio sempre e mi piace farlo. La porta è aperta “almeno questo” mi dice, e cominciamo a inerpicarci su per le scale. L’infermiera che era con noi sale per prima, velocemente, non deve portare niente. Lo zaino invece pesa ed è ingombrante mentre salgo le scale. Al quarto piano c’è una porta aperta, noi entriamo e non c’è nessuno a dirci che è la casa giusta. Sentiamo delle voci provenire dall’unica stanza illuminata della casa, le seguiamo e troviamo un signore in piedi che, terrorizzato, ci dice che sua madre sta male. La vecchia signora, distesa sul letto, non si muove e non sembra essere più tra noi. Io estraggo subito il DAE e l’infermiera prova a mettere gli elettrodi del monitor sulla vecchia. Nessun segnale. Ci guardiamo. “le piastre” mi dice, io le estraggo e le posiziono sul petto della signora, ma spostando la camicia si palesano delle piaghe da decubito, viola e terribilmente puzzolenti. “È per questo che mi dicono sempre di mettermi i doppi guanti” penso tra me. Mentre l’autista comincia il massaggio cardiaco io compongo il pallone ambu, prima la maschera, poi il filtro antibatterico, poi il pallone. Il DAE produce il suo segnale acustico “allontanarsi dal paziente, esame in corso” e noi ci fermiamo. Il signore ci guarda inorridito, come se stessimo uccidendo sua madre avanti ai suoi occhi. “scarica consigliata”, e mentre l’austista preme l’unico pulsante sulla scatola gialla la scarica elettrica fa saltare la vecchia. “Hai chiamato in centrale?” mi chiede, “si, adesso ci dicono cosa fare”. L’infermiera prova a inserire una cannula di Guedel nella bocca della vecchia, che viene però sputata. “vuol dire che è ancora viva” dice, e ci prepariamo al trasporto in ospedale. Una volta messo il telo portaferiti e acchiappato tutta l’attrezzatura che avevamo portato su, ci incastriamo tra le scale del palazzo, intrappolando le mani nelle maniglie del telo, così che il paziente cade solo se qualcuno si rompe il polso. Scendiamo a fatica le scale, passando a turni le curve perché in due non ci si passa. Ogni scalino diventa sempre più faticoso, ma almeno siamo in discesa. La vecchia peserà almeno 90 chili, vuol dire 30 a testa, infermiera compresa. “per fortuna che ci sei tu” mi fa l’autista “sennò dovevamo chiamare i pompieri, in due non si poteva fare”. Carichiamo la vecchia in barella, e saliamo in ambulanza. “Parti! Parti parti!” dice l’infermiera dal vano sanitario, e l’autista che armeggiava con la radio parte. Il massaggio cardiaco riprende in ambulanza, con una mano mi tengo alla sbarra sul soffitto del vano, e con l’altra cerco di fare qualcosa. Tra le curve e i dossi, capisco che qualcosa non va, guardo l’infermiera e vedo del terrore. C’è confusione nel suo volto, come se mancasse un protocollo da imparare a memoria per questa emergenza. Le luci blu dentro il vano non sono sufficienti per vedere, e passando sotto i lampioni lo spazio si illumina e ricade nell’oscurità con una ritmicità rilassante. Il tempo scorre ad una velocità incredibile, e arrivati in pronto soccorso scendiamo. Portiamo la vecchia in sala rossa, e l’infermiera subito comincia ad armeggiare con farmaci, macchine, aghi e flaconi. Io sto fuori a guardare, mentre l’autista torna fuori e sistema l’ambulanza: le cose usate vanno ripristinate, i lenzuoli vanno messi a lavare. Il medico si precipita all’interno della sala, e guardando i parametri del paziente allontana l’infermiera. “chiunque tocchi ancora questo paziente lo denuncio per vilipendio di cadavere”. Io mi sento esterno alla questione, non mi tange, come se stessi guardando me stesso dall’alto, come in un gioco. Non penso a nulla. Un'altra infermiera mi si avvicina e mi chiede se volessi guardare mentre mettono dei punti ad un cinese. Io le dico di si, e la serata continua. Muovendomi tra una sala e l’altra ripasso davanti alla sala rossa, dove attorno alla vecchia è pieno di studenti di medicina intenti ad esercitarsi nelle intubazioni. L’infermiera con cui ho fatto l’intervento è seduta nel letto affianco, e piange con le mani sulla faccia. Io mi avvicino, ma non mi sembra il caso di dire niente, è una cosa che io non posso sistemare, ed esco.

Il mio turno finiva circa un ora fa, ma continuo a bazzicare le sale, guardo chi entra e chi esce, mentre la lancetta gira. Un’infermiera si avvicina e mi dice “che fai, non torni a casa?” e io obbedisco. Non mi sento molto capace di prendere decisioni da solo. Apro l’armadietto dei volontari e compilo i moduli, cammino per i corridoi vuoti dell’ospedale, salgo un piano di scale e finalmente mi dirigo verso la rampa di uscita che porta al parcheggio, lasciandomi l’imponente struttura alle mie spalle.

Questo è successo almeno cinque anni fa, una delle mie prime esperienze da volontario, e ho avuto incubi per tre settimane. Stavo frequentando il primo anno di università. La prima cosa che insegnano ai corsi di soccorso è che ognuno ha una sensibilità diversa, che ci colpisce quando meno ce lo aspettiamo. Non ci si può fare nulla, capita, e bisogna sapere che quando succede ad un nostro collega dobbiamo prendere noi l’iniziativa. Un bambino che ricorda il nipote, una situazione che si ripete quasi uguale, può essere en evento di una banalità assurda a metterti in ginocchio.

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Bernard Ducosson
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