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Dead Land

Dead Land

Published Apr 12, 2024 Updated Apr 12, 2024 Horror
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Dead Land

Gray City 

Sangue grigio 

Il cemento e il metallo soffocano la terra, il cielo è perennemente coperto da una coltre di gas grigio. Nessuna via d’uscita da ciò che chiamiamo casa. La notte e il giorno hanno lo stesso sapore, le stesse luci artificiali gialle, blu, rosa, verdi. L’odore degli scarichi delle auto è intriso nei vestiti, nel cibo, nelle labbra che baciamo. Tutto è ostile a noi nel mondo che abbiamo creato al costo delle nostre vite, anche la stessa legge. La maggior parte delle presone qui sopravvive a stento, giorno dopo giorno, in una estenuante esistenza alla costante ricerca di scappatoie per portare a casa un tozzo di pane grigio arrotolato nella plastica. Nulla ha più sapore, solo le salse sanno di petrolio, e le bevande sanno di gas. La vita scorre, nel ciclo infinito, tra le strade principali, i vicoli, le scale dei palazzi. Sembra tutto provvisorio alla nostra mente “non starò qui a lungo”, ma non sappiamo di sederci ogni giorno nella nostra bara, muovendoci nella cripta che contiene le nostre anime. La nostra città. Le dobbiamo tutto, ci concede di essere ciò che siamo, le siamo grati e gioiamo quando parlano di lei al telegiornale. Nel mondo aspettiamo che le persone riconoscano lei. Che sappiano i locali, le piazze, i ponti e i monumenti a memoria, senza neanche averli mai visti. Muoversi tra la folla di poveri per le strade, che ingombrano il passaggio e non ci lasciano correre verso la nostra prossima bara, ci rende nervosi, febbrili, morbosi. Una rabbia cresce dentro di noi giorno dopo giorno, mentre cerchiamo di soffocarla con panini e salse, con divertimento e spreco. Cerchiamo di ignorare le grida disperate che provengono dalle tende da campeggio accumulate lungo i marciapiedi, mentre i ruscelli di acqua nera scolano nelle fognature. Alcuni di loro stanno seduti, con le braccia abbandonate a penzolare dalla sedia di plastica che chiamano casa, mentre fissano il vuoto con uno sguardo sorpreso e angosciato e la mandibola cadente. Mentre le siringhe logore sono ancora attaccate alle loro vene. Si tratta di coloro che non possono permettersi di vivere, non hanno abbastanza denaro per essere accolti nel cemento, sono abbandonati a loro stessi mentre cercano disperatamente di tornare nelle grazie di colei che rende grandi gli uomini. Inferiori anche agli animali, nessuno vuole essere guardato da loro, perché i loro occhi sporcano i nostri vestiti con l’indecenza e la pietà, cercano di farcela pesare sulle spalle mentre NOI lavoriamo e NOI fatichiamo e NOI siamo accettati da altri come NOI. Loro sono loro e così deve essere. La città ha parlato chiaro, ha creato uno spazio adatto a loro e gli ha concesso di morire lì, qualsiasi altra richiesta deve essere rifiutata in tronco, qualsiasi preghiera provenga da quelle cose deve essere estirpata e la nostra mente purificata da essa. Camminando per i marciapiedi sentiamo la loro puzza, vediamo il loro cibo dentro le scatole per terra, le loro cose dentro a carrelli della spesa o sacchi della spazzatura. Ironico, perché è proprio ciò che sono e ciò che si meritano di essere. Così è scritto e così deve essere… Il loro unico passatempo, la loro unica medicina, sono le droghe. Ce ne sono di tutti i tipi e per tutti i gusti, o meglio, per tutti i portafogli. Le meno costose sono le droghe sintetiche; non c’è spazio per la natura nemmeno dentro di noi, ma la scienza e la tecnica medica sono ciò di cui il corpo e l’anima hanno bisogno. 

Mentre al porto arrivano navi enormi provenienti da ogni parte del mondo a scaricare tonnellate e tonnellate di cubi colorati, mentre giorno e notte le persone corrono come formiche viste dall’alto, con l’unico scopo di morire in nome del formicaio, il mercato si ingrandisce. Sacchi, boccette, blocchi di polveri di ogni genere vengono scaricati e trasportati verso i sobborghi, dentro a fabbriche in mattoni con i vetri rotti, per essere tagliate, allungate, colorate, modificate. Gli impiegati che fanno mucchietti di sabbia da dividere in bustine sanno che quando torneranno a casa dovranno farsi un bagno, per lavare corpo dalle sostanze che si sono depositate sulla loro pelle e la mente dalle conseguenze di ogni sacchetto che hanno chiuso col fuoco di un accendino. 

 

Durante la notte le strade si riempiono di loro, pullulano di quei così che si muovono a scatti, con le braccia tese, dritte, cadenti e le schiene inarcate come in danze macabre e squallide, camminano a stento a piccoli passi, molti cadono, alcuni si rialzano. Le mamme chiamano a squarciagola i bambini che si attardano a giocare al parco quando i lampioni si accendono illuminando di giallo l’erba sintetica, perché gli organi freschi valgono un anno di droghe, e la legge della strada è unica e chiara: mai lasciare che un’opportunità si trasformi in un rimpianto. Alcune droghe ti rendono felice, altre ti fanno passare la fame, altre ti fanno dimenticare che il tuo corpo sta marcendo a causa dei buchi infetti che hai sulle braccia. Buchi che si ingrandiscono, facendo marcire intere porzioni di pelle, rendendola nera e squamosa finché non cade, lasciando esposte le ossa bianche. Spesso l’unica cosa che le protegge sono dei sottili fogli di plastica che quei così si mettono per coprirsi, come una pelle di petrolio per il nuovo essere che rinasce nel ventre dell’asfalto, che diventa tutt’uno con le strade. 

 

Il respiro del cemento 

(Val): “Sono in ritardo, sono in ritardo!” disse “sono nel ritardo più assoluto, devo correre correre correre forte forte fortissimo” mentre si allunga per accalappiare con la punta delle dita una fetta di pane che aveva lasciato sul tavolo della cucina la sera prima e schiantandosi contro la porta per spalancarla e poi sbatterla dietro di sé contro i cardini come se il futuro dell’umanità dipendesse da quello. Scendendo le scale, scivolando sui gradini di cemento e aggrappandosi all’ultimo istante sul corrimano di ferro arrugginito, mentre macina con i denti la fetta di pane e controlla di avere un pezzo di ferro tagliente nella borsetta per difendersi da loro, in quanto era mattino presto e…non si sa mai. Raggiunto il piano terra, corre verso il portone d’ingresso e comincia il rituale. Aprire le porte dei palazzi è impossibile, a meno che tu non abbia una chiave; il cemento è casa, e chiunque di loro sarebbe disposto a fare qualsiasi cosa per chiamare un buco bagnato “la MIA casa”. Nella penombra dell’androne al piano terra, uno stanzone senza finestre freddo ed inospitale, Val inserisce la chiave dentro alla serratura posta a lato della porta e davanti ai suoi occhi i chiavistelli scricchiolano, i catenacci si alzano, i blocchi schioccano, le putrelle tornano scattando nelle loro fessure nel muro, i cardini cigolano e dalla fenditura della porta che si sta aprendo entra un piccolo spiraglio di luce. Basta quella piccola linea verticale di luce accecante per far scomparire tutta l’oscurità che avvolge il piano terra. Il confine che demarca la casa dalla strada è segnata dall’acqua nera e dalla spazzatura, che non riescono a penetrare le spesse porte fatte di ferro, cemento e polimero. Per val è un’oscenità dover calpestare l’esterno, le vengono conati di vomito solo al pensiero che le SUE scarpette pulite con tanta cura la sera prima tocchino quel sozzume. Però il richiamo della città è sempre forte ed irresistibile, e la devozione di Val verso di essa è monolitica. “non sarà di certo un po’ di acqua a spaventarmi” si dice mentre imbocca l’uscita. Val mente a sé stessa quasi continuamente, ma è così brava, o così stupida, che finisce per credere alle sue stesse menzogne. Mentre si dirige a piedi verso la metropolitana oltrepassa cumuli di loro, ammucchiati sui marciapiedi dai netturbini speciali che tengono pulita dai corpi la grande strada. Molti nullatenenti, ovvero quelli che NON posseggono, muoiono durante la lunga notte per le più svariate ragioni, chi di fame, chi di freddo, chi per overdose e chi viene ucciso. Non fa differenza agli specnet, che si limitano a raccogliere quei così e a lanciarli nel cassone del camion. Spesso devono togliere i corpi dalle grinfie dei famigliari o dagli artigli dei bambini nati deformi a causa della spazzatura e delle droghe. “se gli aveste voluto bene davvero, gli avreste dovuto dare le vostre cose, non fate finta di piangere ORA” gridano ai disperati in lacrime, con gli sguardi ieratici, le bocche socchiuse, le labbra tremolanti e i volti coperti di acqua nera e solo due rivoli puliti dalle lacrime sotto agli occhi che rivelano il vero colore della loro pelle. Val non bada più a queste cose, è risaputo che quello è il destino di chi non possiede nulla, “crudele ma giusto” si ripete “le regole della città sono semplici, sei ciò che hai, e se non hai non sei”. La fretta sembra averla lasciata una volta tornata al suo posto, camminando per le strade al cospetto degli altissimi palazzi, la cui sommità è invisibile a causa delle nuvole di gas. Le auto nella carreggiata si accalcano l’una sull’altra, quasi schiacciandosi ai semafori e agli incroci, per andare un pochettino più avanti, solo qualche centimetro in più. Tutti devono fare ciò che devono fare, andare al lavoro, entrare nei palazzi in cemento per svolgere le loro importantissime funzioni, perché sanno che la città senza i loro sforzi diventerebbe un caos, ed essendo la città grande, i loro sforzi dovranno essere grandi. Entrando nel grattacielo della Plasticorps, Val passa velocemente le scarpe e le mani in uno degli igienizzatoti posti in fila come soldatini bianchi per poi dirigersi verso i grossi ascensori stracolmi di persone che non ha mai visto in vita sua. “è strano” pensa tra sé mentre l’ascensore sale “ogni mattina prendo questo ascensore, ed ogni mattina vedo facce nuove”. Il crepitio dei cavi nella tromba dell’ascensore la distrae, mentre immagina il contrappeso quadrato immergersi a gran velocità nel vuoto dalle sommità del palazzo, sapendo in cuor suo che lei può solo immaginare ciò che succede e che non vedrà mai ciò che esso vede. Un leggero *Ding* annuncia l’apertura delle porte al 41esimo piano, e delle poche persone rimaste ancora nell’ascensore lei è l’unica a uscire. Camminando sulla moquette sintetica verdastra, attraverso il labirinto dei cubi- ufficio di color greige caldo, un leggero tonfo ovattato dalla peluria sporca accompagna ogni suo passo fino alla sua scatoletta. Si siede sulla sua sedia nera, davanti alla sua scrivania color legno (anche se in realtà è fatta di plastica) inserendo la password del suo computer e controllando che la linea del suo telefono funzioni. È molto importante verificare la funzionalità di ogni oggetto di lavoro, sia perché sono suoi, che perché potrebbero arrivare telefonate già dalle prime ore. I telefoni sono collegati gli uni agli altri all’interno del palazzo, e le chiamate arrivano esclusivamente da suoi colleghi lavoratori nell’edificio. Val non sa se si possa chiamare qualcuno dall’esterno, non ci ha mai provato e farlo sarebbe solo una perdita di tempo. Tutte le sue giornate lavorative seguono lo stesso corso. Il suo importantissimo compito è chiamare gli altri piani al telefono e riempire il computer delle informazioni che si scambiano. Informazioni su imballaggi, plastiche, protezioni e confezioni. La produzione è importantissima e la qualità del prodotto deve essere sempre altissima, la migliore plastica della città, anzi del mondo intero perché “con un palazzo così alto e con così tanti lavoratori, dovremmo vendere plastica in ogni angolo del pianeta”. Quando il telefono squilla, lei risponde e ascolta ciò che le viene detto, lo memorizza nel computer, e con suo grande vanto anche nella sua testa, per poi chiamare un altro numero e ripetere le informazioni che le sono state dettate. Si ricorda tutto del lavoro, ma proprio tutto, nomi e numeri, date e scadenze, orari, tipologie di plastiche, nomi dei brand e addirittura numeri seriali a sedici cifre. Non potrebbe essere più contenta, né più fiera di sé stessa. Sta facendo la sua parte e la sta facendo anche molto bene. 

Lei lavora finché qualcuno al telefono le dice che è arrivata l’ora di smettere, e lei da ottima lavoratrice qual’ è ripete il messaggio di chiusura per via telefonica ad un altro lavoratore. Durante la discesa in ascensore non viene riprodotto il jingle dell’azienda ma un messaggio registrato che ripete istruzioni, che Val sente ma non ascolta in quanto ha già la testa piena di informazioni, e non ne vuole certo accumulare altre. Uscendo dalle porte dell’androne del palazzo si guarda attorno, ammirando il cemento che vive e prospera attorno, sopra e sotto di lei. Le sembra quasi che non sia cambiato nulla da quando è entrata, che le auto siano sempre le stesse in attesa di avanzare nelle stesse corsie. “il ritorno ha sempre un che di malinconico” dice mentre prende la via verso casa “mi piace lavorare e chiamare i miei colleghi”. Ormai era quasi ora di ascoltare le grida disperate delle madri che si affacciavano dalle finestre dei palazzi, e Val si aspettava di poter ascoltare i nomi dei bambini, ma sentiva come se nell’aria mancasse un elemento, come se l’energia sprigionata dai gridolini divertiti dei più piccoli si fosse dispersa nello smog. E infatti quella sera non sentì madri gridare ne vide bambini correre verso i portoni delle loro case, ma una cosa che la incuriosì fu il notare un certo livello di frenesia nei nullatenenti, come se non avessero nessuna intenzione di conservare per loro stessi le poche energie che gli rimanevano nelle membra e nei muscoli, ma volessero disperderle nel putridume che li circondava; si trascinavano, si avvicinavano, si inseguivano e si prendevano, si soffocavano e si mutilavano il viso l’un l’altro con ogni mezzo a loro disposizione, si mordevano e si masticavano, si strappavano e si ricoprivano dei pezzi dell’altro come se fossero marci ornamenti ed effigi primitive, biglietti di ingresso nel mondo delle danze dimenticate dagli uomini morali. Lei continuava a camminare, immergendo le sue scarpe nel liquido denso come olio non più di colore nero, ma viola, che sembrava scorrere e sgorgare in modo più intenso del solito. Ma non era di certo un suo problema, capire l’andamento del fluido nero non competeva a lei e non aveva nessuna voglia di fare il lavoro a qualcun altro senza ricevere nulla in cambio, e poi d'altronde lei non sarebbe stata lì per sempre, sarebbe stato più intelligente spendere il suo tempo cercando qualcos’altro. E mentre era assorta in questi pensieri tutto intorno a lei quei così si ergevano sopra a mucchi di carni e membra divelte, mentre usavano porzioni strappate dai loro corpi per colpire con gran foga e fatica il mucchio, come se volessero schiacciare e distruggere ogni cellula animale presente in quel conglomerato. Le grida di terrore di donne e bambini straziati e massacrati non vanno ascoltate, se quelle donne e quei bambini sono LORO. Pensava a questo Val mentre guardava il grande portone di ferro aprirsi con grandi schiocchi, e quello stesso baccano attirò all’improvviso l’attenzione di alcune figure oscure, nascoste oltre i fasci di luce, grondanti e ansimanti. Sembravano poter pensare come animali superiori, sembrava che i loro neuroni si stessero scambiando segnali elettrici in modo morboso e convulso, muovendo la testa a scatti e flettendo ogni muscolo dalla schiena alle dita delle mani in un arco innaturale e maligno che li portava a schiacciare l’aria putrida fuori dai polmoni, producendo un grugnito grasso e marcescente. Val stava guardando l’atrio del condominio, così buio e freddo, le avrebbe fatto piacere non essere sola in quel momento, magari parlando al telefono come aveva fatto al lavoro, e non si accorse quindi che quegli esseri innaturali e moribondi si erano scagliati di gran carriera verso di lei, correndo e mostrandosi per quei mostri disgustosi che sono ogni volta che venivano colpiti dalla luce dei lampioni. Correndo nelle più disparate maniere, sembravano caricature di esseri umani, alcuni con le braccia tese verso di lei, la testa all’indietro e le bocche spalancate come se stessero urlando a squarciagola ma senza produrre alcun suono, altri con i gomiti inchiodati ed il busto ondeggiante, si scontravano e si rialzavano, inciampavano sulle tende e su altri esseri presenti nel marciapiede. Val attirata da questa improvvisa sensazione di furia omicida commette l’errore di girarsi, quasi annoiata, e il suo sguardo incontra il volto di uno di quegli esseri, il volto di val si riempie di terrore puro, gli occhi si sgranano e la bocca si apre lievemente mentre vede quelle figure abominevoli che si avvicinano come mai era successo in vita sua, mentre alza le mani dai fianchi nell'inutile tentativo di difendersi. Lo guarda in faccia mentre si schianta a tutta velocità attraverso la piccola fessura del portone e ci rimane intrappolato per essere poi schiacciato grazie ai potenti motori che fanno ruotare i cardini. La sua espressione rimane attonita, immobile, per tempo compreso tra una manciata di secondi e svariate ore. 

Risalire le scale le sembrava diventato impossibile, ogni scalino era diventato altissimo e si doveva aggrappare costantemente al corrimano con entrambe le mani per poter proseguire senza accasciarsi ad ogni passo. Avrebbe desiderato sedersi in un angolino ed attendere che qualcuno la venisse a prendere, ma non sarebbe mai successo, e lei lo sapeva. Nessuno le avrebbe dato nulla senza ricevere qualcosa in cambio, e lei certamente non avrebbe ceduto nulla a nessuno. Una volta entrata nel suo appartamento di tolse le scarpe e le lavò in modo automatico, era la risposta che il suo corpo effettuava ogni volta che tornava a casa, come un automa, ma mentre toglieva i residui di corpi, sangue e bitume cittadino crollò in lacrime accasciandosi sul pavimento e perdendo i sensi. 

La realtà  

Dopo i dieci miliardi, i governi non sono più stati in grado di tenere il conto dei propri cittadini. I morti intasavano prima gli obitori e poi le strade, e i nati non si sapeva più dove metterli. Il libertinismo propagandato dai film ha indotto una delle reazioni a catena più deleterie mai gravate sulle popolazioni che avevano dimenticato il progresso culturale determinato dai metodi contraccettivi. L’ecologia di alcune popolazioni umane era molto più simile a quella degli insetti che ad altri mammiferi. Il completo disinteresse per la prole e la costante ricerca di gratificazione stavano mostrando la vera forma dell’uomo come essere senziente senza morale ne limiti. Tutte le culture e religioni millenarie sono state cancellate nel giro di pochi decenni e la memoria collettiva le ha abbandonate all’oblio della storia. Le strade pullulavano di bambini soli, di madri sole, di padri in fuga. Nessuno avrebbe mai immaginato che commettendo piccoli errori, e senza nessun interesse nel correggerli, queste sviste si sarebbero sommate agli errori di tutte le persone viventi, intasando il sistema di aiuti e soccorsi, saturando le case per l’accoglienza e gli ospedali. L’interesse per un livello di istruzione superiore si era affievolito nel momento in cui il popolo aveva capito che indebitarsi per potervi accedere era un gioco che non valeva più la candela. Soprattutto all’apice del denaro volatile e fasullo delle criptovalute e della disincentivazione e presa in giro dei settori produttori di materiali, e sollevando a divinità tutto ciò che è frivolo e senza capo né coda. Tutto ciò che viene presentato da uno schermo diventa immediatamente verità nella mente del popolo assoggettato, ma anche l’uomo di plastica rimane pur sempre un uomo, e come tale vive basandosi morbosamente su una dottrina. Una volta era la madre terra, poi le divinità onnipotenti, ora il nulla. Anche il credere nel nulla è una dottrina. Appagarsi nella falsità delle proprie idee, per quanto incredibilmente cieche possano essere, è l’oppio con cui il mondo continua a girare senza esplodere. Finora. Ore e ore della vita degli uomini dedicate giornalmente alla preghiera con i cellulari in mano hanno deformato i loro cerebri, che sciogliendosi sono usciti come scarti neri dalle loro orecchie e dal naso. 

Nessuno poteva esprimersi liberamente senza incappare in un gruppo che odiava in modo aberrante le parole e le opinioni appena pronunciate, la salvezza giaceva nel rimanere in completo silenzio, in quanto qualsiasi tipo di espressione comportava una punizione. Coloro che erano in grado di esprimersi senza dire nulla riuscivano a sopravvivere alla mattanza ideologica che veniva perpetuata in tutte le città. Non avevano chissà che pregi, né qualsivoglia talento maggiore o vocazione, erano semplicemente figli di una statistica infallibile che li rendeva immuni all’odio e alla diffamazione, la loro incapacità era tale da venire premiata ed elevata dalle masse perché le loro opinioni non erano in grado di accendere nessun collegamento neuronale all’interno dei cervelli degli ascoltatori, che rimanevano assuefatti. E quindi i modelli da seguire erano delle finzioni empie e assolutamente vuote, delle scatole di pandora da cui fluiva il nulla cosmico. Ed erano seguiti da frotte di persone, volontariamente assoggettate da una tirannia invisibile, che loro stessi promulgavano. La vita non aveva più nessun sapore, né nessun significato. La morte nemmeno. 

I falsi idoli, le speranze dell’annichilimento delle capacità, la sovrapproduzione di beni inutili e il sovra consumo del nulla hanno portato il mondo ad una nuova alba. 

Il nuovo mondo 

“Ma che succede? Che trambusto inutile. Smettetela di schiamazzare! Non gridate! Accettate il vostro destino senza rompere le scatole agli altri!” mentre i reietti della società, ammucchiati e abbandonati lungo i marciapiedi come sacchi di spazzatura, alzano i loro corpi cadaverici e scomposti per dare sfogo alle loro pulsioni involontarie e incontrollabili, mentre le droghe sintetiche che fluiscono dentro le loro vene stanno facendo marcire i loro cervelli rendendoli ancora meno umani, la gente degna di vivere si lamenta del loro straziarsi e dilaniarsi. Li maledicono perché nemmeno le spesse mura di cemento dei condomini sono capaci di ostracizzare le grida. Le nere figure si muovono nella notte, lungo le strade, strisciando contro le pareti, le loro ombre si ingigantiscono e si rimpiccioliscono ogni volta che sorpassano un lampione. 

La notte nelle strade è stata contraddistinta dalle maligne azioni dei disgustosi esseri che, spinti da una frenesia terribile, hanno speso il loro tempo inginocchiati a ingozzarsi riempiendosi la bocca di brandelli umani e inghiottendoli senza masticare, facendoli scivolare nella gola grazie alle grandi quantità di sangue che accompagnano i pezzi. A terra giacciono sofferenti le persone che stanno venendo divorate vive, i denti aguzzi dei mostri tagliano pelle e muscoli strappandoli da braccia e gambe esponendo le ossa, creando fontanelle rosse intermittenti. Le dita di questi esseri ingordi e avari si fanno strada attraverso l’addome delle loro vittime, che aprono con le unghie, e ne estraggono le viscere e le stritolano mentre le portano alla bocca. Chi non è riuscito a fuggire e salvarsi giace disteso e grida a squarciagola, come se dovesse farsi sentire oltre i confini del cielo, con gli occhi sgranati, aperti come se stessero per scoppiare fuori dalle orbite, che diventano gialli e poi rossi, immobilizzati dal peso dei loro aguzzini e dalla mancanza di comunicazione tra i pezzi del loro corpo. Le grida più disperate si sentono per intervalli di tempo variabili, da una manciata di minuti fino anche a mezz’ora di costante lamento. Solo quando vengono strappati i polmoni o la lingua o la gola lo strazio finisce di essere condiviso e diventa privato, tra mostri e vittime. Le bestie con le pance rigonfie si siedono, si stendono e si accasciano, soddisfatte di essersi ingozzate in modo disumano, e mentre digeriscono ciò che fino a pochi istanti prima era vivo e senziente, sulla pelle delle loro pance si vedono affiorare le sagome di mani, dita, orecchie spinte dall’interno dei loro stomaci dall’ enorme quantità di materia, come medaglie per vantarsi delle loro gesta obbrobriose. 

Aprendo gli occhi, Val si trova stesa in una pozza di fredda nel pavimento del bagno del suo appartamento, mentre le mani gelide stringono il palo verticale di un porta asciugamani in ferro. Non riesce a chiudere la bocca mentre l’aria che ha sempre dato per scontato non soddisfa la sua cieca fame di ossigeno, e le mani sanguinanti cominciano a vibrare per il prolungato sforzo di stringere il metallo.  Non si rende conto di cosa stia facendo, e mentre si guarda attorno, riprendendo finalmente il controllo dei suoi pensieri, abbandonando la vitale presa lasciandosi scivolare nuovamente sul pavimento freddo con lo sguardo attonito e la bocca spalancata. 

Ancora e ancora 

Una cantilena metallica proveniente dalla camera da letto rimbomba nelle stanze dell’appartamento, cozzando contro i muri di cemento grezzo, mentre si ripete identica come un mantra la cui durata sembra dover superare l’età del tempo stesso, e che riesce a risvegliare Val dal morbo del sonno che la sta straziando ma che al tempo stesso avrebbe voluto fosse eterno. Distesa sulle piastrelle a scacchi bianche e nere, si spinge con l’ausilio delle braccia graffiando con le unghie la ceramica e alzando il suo corpo che reagisce come fosse una marionetta di legno tenuta insieme da fili elastici. Si muove a scatti, con le giunture che schioccano e si disarticolano mentre la sua figura si erge verso l’alto, tirandosi e spingendosi. Come prima cosa si sistema davanti al lavandino e pulisce le sue scarpette completamente coperte di sangue, tenendo gli occhi azzurri sgranati mentre fissa il vuoto e sorridendo con la bocca completamente aperta come per emanare un grido che non riesce a prendere forma, mostrando tutti i denti bianchi, il cui colore risalta nello sfondo annerito delle guance e delle occhiaie, mentre i capelli biondi ancora raccolti in due code laterali dondolano seguendo lo strofinio delle mani sulle scarpe. La colazione è già servita e attende sul tavolo a raffreddandosi mentre Val si cambia d’abito perché “una persona che svolge un lavoro importante come il mio deve essere sempre splendente” e mentre pronuncia queste parole volteggia specchiandosi davanti ad una cornice vuota. “è quasi ora di andare al lavoro” bisbiglia a sé stessa “non posso sempre prendermi all’ ultimo minuto”. La routine la rende felice, sapere qual è il suo posto le solleva dalle spalle il peso di una vita di disagi e… La borsetta che stringeva tra le mani piomba a terra, lo sguardo fisso verso la porta d’entrata, la mandibola cade lentamente verso il basso e le pupille si dilatano coprendo completamente di nero l’iride per poi rimpicciolirsi nuovamente, le braccia penzolano come lembi inanimati di un pupazzo mentre le dita si richiudono sul palmo in un movimento che ricorda quello delle zampe di un ragno che muore.” Odio! Un odio mortale per le belve che hanno cercato di strapparle la vita, maledette creature senza meta che vagano nel nepente, schiavi di asmodeo e suoi obbrobriosi servi! Devono essere sterminati, sterminati! Devo dilaniarli, devo squarciarli, non posso lasciare che lo facciano di nuovo! Devono crepare, fino all’ultimo della loro specie, un’ecatombe, uno sterminio!”. I suoi occhi poi, lentamente ma con costanza, si disallineano e sul suo volto compare un’espressione scioccata. 

La colazione rimane sul tavolo mentre Val attraversa la porta di casa, chiudendola dietro di sé, per poi imboccare le scale che la portano davanti al grande portone d’ingresso del suo condominio. Anche oggi l'enorme portone cigola e scricchiola mentre ruota sui cardini come un sipario che si apre su uno spettacolo osceno e al contempo magistrale. Le strade sono interamente coperte dei resti di esseri umani uccisi e sbranati la notte precedente. I rivoli di acqua nera sono ora scarlatti mentre scivolano lungo le strade cullando dita e occhi che si mischiano alla solita spazzatura. Val, sempre schifata dal mondo esterno al suo appartamento, si fa forza mentre spinge il piede sopra ad un torace aperto, sfondandone le costole morsicate e finendo con la caviglia dentro il busto vuoto. Un passo dopo l’altro, mentre si inerpica in una strada occupata da ossa e pezzi di carne, zampetta verso il suo ufficio, dove anche oggi deve svolgere la sua importantissima mansione. 

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