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Il complesso biomedico

Il complesso biomedico

Publié le 8 mai 2024 Mis à jour le 8 mai 2024
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Il complesso biomedico

Una voce elettronica parla attraverso l'interfono: "TOT: 2 minutes". 

L'abitacolo del Huey è quasi buio, solo scarsamente illuminato da una singola lampadina rossa. I tre PMC ingaggiati dal ministero della difesa sono seduti in due file, sugli scomodi sedili in ferro e lino del Huey. Nessuno dice nulla. Si guardano, guardano le loro armi, guardano fuori dai portelloni aperti l’enorme estensione dell’oscura foresta che stanno sorvolando velocissimi. “Remember, in and out, easy as pie. The research facility is spread across 20 square kilometers, just stick to the plan you recieved. Don't get lost. As soon as you done, meet at the helyport, northbound, and light a flare, we’ll pick you up.”. 

Matias si toglie le cuffie, “come la fa facile lo stronzo”. Gli altri due, che hanno più o meno capito il suo labiale, ridono forzatamente. Non c’è tanto di cui ridere. L’elicottero sorvola a bassa quota una strada incastrata tra la foltissima foresta, adatta a piccoli mezzi di terra. Un vecchio cartello indica la direzione per i laboratori genetici. Da lontano si intravedono davanti a loro delle imponenti strutture in cemento, accerchiate da alti cancelli, reti e filo spinato.  Improvvisamente l’elicottero rallenta, stabilizzandosi sopra un piccolo cortiletto. Vengono fatte cadere due grosse corde e la luce rossa si spegne per un istante, rivelando la completa oscurità che li circonda per chilometri e chilometri, per poi lasciare il posto ad una luce verde. “Green light, jump!” gli viene ordinato dai piloti attraverso le cuffie. I tre afferrano le grosse corde e si lasciano scivolare per svariati metri nel buio più totale. Una volta toccato terra, le corde si accoccolano delicatamente su sé stesse, arrotolandosi come un grosso serpente nero. L'elicottero si è già voltato e se ne sta andando nella direzione da cui era venuto, senza aspettare oltre. I tre si trovano a guardare l’edificio, con la recinzione alle spalle, accucciati o inginocchiati con i fucili in mano, le luci tattiche ad illuminare le finestre che corrono lungo la facciata. Due improvvisi fuochi rossi divampano dalle mani di Matias e di David, che li gettano ad un paio di metri di distanza da loro. Rebecca nutre la canna del suo AUG a1, e si prepara per l’incursione. “Allora a me toccano gli uffici” dice David, “Matias tu prepara il sistema di comunicazione, installa il trasmettitore a lunga frequenza”, “E io penso al generatore” lo interrompe Rebecca “non si vede nulla”. “Meglio così” le risponde Matias “Meglio non farci vedere troppo, già l’elicottero ha fatto un casino”. La luce dei flare perde placidamente d’intensità e i tre non sono quasi più capaci di riconoscere il viso l’uno dell’altro. “è ora, sincronizziamo gli orologi” dice David e i tre impostano l’ora alle 02:00. “Buona caccia” bisbiglia Matías a Rebecca, serio. I due uomini, chini, si immergono assieme nell’oscurità seguendo il muro perimetrale che costituisce l’edificio verso la loro destra. Rebecca li guarda svanire nel buio, come se non fossero mai stati lì, per poi partire silenziosamente verso la parte opposta. Il cemento usato per pavimentare il percorso cerca in tutti i modi di far risuonare i suoi passi mentre scivola contro il muro con la spalla destra. Alla sua sinistra, oltre le altissime recinzioni e il filo spinato, la foresta è silenziosa. Si riesce a scorgere a malapena la silhouette delle fronde che si stagliano contro lo sfondo del cielo stellato senza luna. Davanti a lei una piccola torretta di guardia in cemento, alta tre metri e qualcosa, si erge affianco ad un cancello scorrevole in ferro arrugginito. Rebecca posa i guanti sul ferro del cancello, e facendo meno rumore possibile lo fa scivolare lentamente, aprendolo solo di una manciata di centimetri in modo da potersi incastrare attraverso. L'mp5k che porta al fianco sbatte lievemente contro lo scheletro metallico dell’inferriata che risuona vuota e Rebecca si blocca per un istante, per poi ripartire. Ora è costretta a camminare lungo un piccolo sentiero largo un paio di metri, delimitato da entrambi i lati da recinzioni, lungo al massimo una decina di metri, alla cui fine si presenta un muro in mattoni con al centro una porta in ferro sormontata da una piccola lampadina accesa. Rebecca si spinge fino alla porta, dove un lieve sciamare di insetti sbatte contro il vetro della lampadina, e estrae da una tasca il kit per scassinare la serratura. Appoggiando il grimaldello questa semplicemente ruota, e con un forte rumore di ruggine e metallo la porta si spalanca da sola. Immediatamente imbraccia la sua arma e si fa coraggio, affrontando la totale oscurità oltre la porta. La luce bianca della torcia si scontra prima contro una parete vuota, poi verso il centro della stanza, contro dei pilastri in ferro e altre strutture. A terra una stretta e lunga grata in ferro continua fino all’estremità opposta della stanza, seguendo il muro, per poi piegare a sinistra verso il basso. È un camminatoio. Gli scarponi di Rebecca fanno risuonare il vecchio metallo ad ogni passo. Mentre scende i gradini perlustra con la torcia il piano inferiore, si tratta di una stanza quasi completamente vuota, con diversi barili accatastati negli angoli e un grosso macchinario posto al centro. È il generatore, –finalmente- sussurra. Avvicinandosi al quadro comandi nota come sia tutto in ottime condizioni, tranne che per l’assenza della leva di sicurezza per l’accensione. Non è un problema. L'interruttore gira, ma rimbalza subito in posizione, e il quadro comandi non si accende. -il problema è sicuramente la batteria dell’avviatore elettrico-. Aprendo un piccolo vano sotto il quadro, vede una batteria di auto con dei connettori appoggiati di fianco. Li connette ai poli della batteria e riprova a girare l’interruttore, che stavolta emette uno scatto deciso ed entra in sede. Il quadro si illumina, luci lampeggiano e lancette fremono. La lancetta del carburante non si muove. Rebecca cerca tra i barili una pompa di travaso, e la trova collegata ad un barile quasi pieno. Travasa il diesel nel serbatoio del generatore. Ora prova a far partire il macchinario tramite l’avviatore elettrico, ma questo sputa e non sembra voler partire. Nonostante gli sforzi per fornire di corrente l’edificio, è tutto inutile. Rebecca è incazzata nera. Tira un calcio al motore così forte da incrinare alcuni elementi in metallo, e con un forte scoppio in generatore parte, facendola cadere all’indietro per la sorpresa. La stanza si illumina gradualmente e il fortissimo sbuffare della bestia rende impossibile sentire i rumori. Rebecca spende un'altra manciata di minuti per travasare un altro intero barile di diesel nel serbatoio, che si riempie a metà, e poi risale le scale in fretta per dirigersi verso l’uscita. Ora deve trovare gli uffici e i laboratori, per setacciare l’intranet del complesso. Raggiunta l’uscita si precipita a passi decisi verso il cancello in ferro, ma qualcosa attrae la sua attenzione. La recinzione di destra è stata squarciata, una grossa fetta di inferriata è completamente scomparsa. Incredula, si ferma. Il cancello poco più avanti è divelto, scaraventato a terra. Una piccola macchia risplende a terra, all’altezza del buco. Un oggetto di colore nero. Rebecca vi si avvicina e si china, circospetta. Lo prende in mano, ed è caldo. Si tratta di un artiglio, come quello di un lupo, ma molto più grande, quasi quanto la sua mano. Lo mette in tasca e procede. Una volta tornata alla drop zone vede sul prato delle orme di animale, grandi, a quattro punte. Continua ad avanzare. Mentre cammina nell’oscurità, seguendo il muro, i suoi scarponi calpestano dei vetri infranti. Lei subito si immobilizza. Sono i vetri delle finestre poste poco sopra di lei. Piccole tracce di sangue ornano i riflessi dei vetri ancora attaccati al mastice delle cornici. Qualcosa è entrato nel complesso. Qualcosa di grosso. Spingendosi quasi a gattoni segue la curva del muro e procede verso l’ingresso usato dai suoi compagni d’arme. L'entrata dell’edificio è preceduta da una bassa scalinata, e protetta da una parete di vetro spessa due centimetri. Non c’è segno di scasso sulle porte, che sembrano bloccate da chiavistelli. Non sono passati per di là. Una piccola porta qualche metro oltre l’ingresso sembra fare al caso suo. Si lascia aprire con facilità, e Rebecca entra in uno sgabuzzino pieno di tubature. Varcando una seconda porta entra finalmente nel complesso principale. I suoi passi risuonano con eco secca mentre attraversa i corridoi verso il salone d’ingresso. Raggiunta l’entrata, prende una scalinata per raggiungere il piano superiore. Lì dovrebbe trovarsi la sala comunicazioni dove sta operando Matias. Sale i gradini. È quasi in cima alle scale, davanti a lei due corridoi sopraelevati si dilungano in direzioni opposte, seguendo il profilo del muro, e al loro centro una doppia porta. Mentre allunga la mano verso la maniglia davanti a sè Rebecca sente alle sue spalle il rumore di forti e pesanti passi vibrare nell’intero salone. Prima lenti e ritmati, poi veloci e frenetici. Si avvicinano. Alle sue spalle. Senza girarsi si lancia contro la porta, spalancandola, per poi scivolare atterra senza mai lasciare la presa sulla maniglia. Tirandosi su e spingendo contro la porta riesce a sbatterla con forza, per poi chiuderla con una spessa e pesante barra in metallo che sembra essere stata lasciata lì apposta per quel ruolo. Sorpresa e spaventata, con il fiatone, Rebecca fa qualche passo lungo il corridoio quando una luce proveniente da una stanza la abbaglia. “Che pasò?” gli fa una voce dalla stanza. Rebecca guarda Matías con gli occhi sbarrati. “Qualcosa è entrato” risponde lei. “Ma che stai dicendo” gli dice Matias abbassando il suo Galil. Lei entra a tentoni nella stanza, lasciandosi cadere su una delle tante sedie girevoli della sala comunicazione. “Lo ho visto, era dietro di me”. “Hai visto cosa?”. “Una fottuta bestia!”. “Ma di che stai parlando? Tutto quel diesel ti ha fottuto il cervello”. “Ti dico che lo ho visto! Era dietro di me! Sono entrati dalle finestre, dalla recinzione!”...“La recinzione! Ho trovato questo sulla recinzione” gli dice mentre estrae l’artiglio dalla tasca. “È un puto scherzo de mierda? Non mi stai facendo ridere Rebecca”. “Dobbiamo avvisare David”. “Quel cazzone starà sicuramente perdendo tiempo”. “Dove sono gli uffici?”, “Sotto di noi”. I due si guardano, “Finisco di preparare il comunicatore, e poi andiamo assieme a cercare quel pendejo, troviamo il computer che ci serve e ce ne andiamo”. “D’accordo” gli risponde Rebecca “dobbiamo cercare di capire cosa sta succedendo”. Dopo pochi minuti l’aggeggio radio è funzionante e produce dei bip ritmati mentre una piccola antenna gira su se stessa. “Il collegamento è buono, possiamo prendere quel computer, attaccarlo, e mentre invia i dati andarcene, non credo ci saranno problemi”. “Dal computer no. Lo sapevo che era troppo semplice, lo sapevo che avevano chiamato dei contractors per vedere cosa gli sarebbe successo. Magari non c’è nemmeno un computer da cercare”. “L’elicottero? Che torni a prenderci?”. “Non lo so. Andiamo a cercare David”. I due escono dalla stanza e guardano la porta sprangata. All'unisono vanno dalla parte opposta. In fondo al corridoio spiccano argentate un paio di porte di ascensore. I bottoni per chiamarli sono incastrati e non si accendono. “Vieni, apriamo” dice Matias. Si allontana velocemente e si infila dentro una stanza, per poi tornare con un pezzo di ferro piatto e lungo, che infila nella fessura tra le due porte ed usa per spalancarle. Illuminando con la torcia la tromba dell’ascensore, vedono ad una manciata di centimetri sotto di loro la cabina. Ci saltano sopra, e con un colpo dato col calcio del fucile fanno cadere sul pavimento la botola superiore. “Prima le signore” fa Matias mentre allunga la mano a Rebecca, la quale la afferra e si lascia calare al piano di sotto. Lui invece salta giù. L'ascensore trema, incerto, come se non fosse arrivato al piano più basso. Le porte sono quasi aperte, c’è la gamba di una sedia che le blocca. Con una piccola spinta i due riescono a spalancare del tutto le porte, accedendo ad un area buia della struttura, molto disordinata, caotica. Vi si addentrano, accendendo le luci portatili, e ispezionano la struttura. “Le luci, svelta”. Rebecca si avvicina in fretta ai muri della grande stanza e comincia a scorrerli, facendo attenzione a non inciampare sulle sedie e tavoli rovinati sul pavimento. Un click, e le luci a neon sul soffitto cominciano ad accendersi. Una ad una rivelano l’entità del caos nella stanza. Non un oggetto è dove ci si aspetterebbe di trovarlo, e quasi tutti i separè verticali dei tavoli sono graffiati o tranciati. “Dobbiamo serrare le porte che danno sull’atrio” fa Rebecca, “OK, presto” gli risponde Matias mentre vi si avvicina con quello che rimane di un tavolo. Accatastati abbastanza materiali, i due si dirigono verso una serie di porte chiuse dall’altra parte della stanza. “Scegli tu che sei fortunata” dice Matías, indicando le porte graffiate e rovinate. Rebecca corre verso la prima porta subito dopo gli ascensori, il bagno degli uomini, e si mette con la schiena a muro, il fucile imbracciato e ad un suo cenno del capo Matias sfonda la porta con un calcio. I due tempestano dentro alla stanza buia, ma appena varcano la soglia della porta strabuzzano gli occhi, impreparati. Un caldo tanfo asfissiante li assale, e la luce delle torce rivela loro un macabro spettacolo. I muri sono completamente coperti di sangue, e resti di braccia strappate, gambe mozzate e vestiti giacciono inermi lungo tutto il pavimento. I due sussultano, non avanzano oltre. È tutto completamente distrutto. Subito escono dalla stanza e chiudono la porta dietro di loro. Ansimanti, hanno fame d’aria. “Puta madre!”. “Si stronzo, ci siamo cacciati proprio in un puta madre”. “Hai visto il braccio, la pattuglia, un'aquila bianca. Avevi ragione, sono PMC, quelli prima di noi.” “Ma non c’è neanche un foro di proiettile, si sono lasciati morire, non hanno neanche acceso il generatore”. “Penso proprio che sia stato quello il motivo della loro fine. C'è qualcosa che caccia nell’oscurità. Si muove, ti punta e ti strazia, e non hai scampo”. “Ma dove cazzo è David?”- “Quel puto, se non viene fuori in trenta secondi lo abbandono”. Rebecca si sposta vicino alla porta seguente, posandoci l’orecchio e ascoltando. “Niente qui”. Matias si avvicina e posa anche lui l’orecchio “sono sicuro che anche nell’altra non si sentiva niente”. “Grazie al cazzo capo”. Con un lieve movimento della mano Matías abbassa la maniglia della porta e spia nella stanza. Uno spogliatoio vuoto, con delle docce a muro in fondo alla stanza. “Che facevano qui, acquagym?”. Rebecca lo spinge delicatamente dentro la stanza “Io dico di entrare, secondo me sono le docce per l’accesso ai laboratori”. “Fammi vedere come si fà”. I due si spostano ai lati opposti della stanza, camminando lungo le due file di armadietti in ferro, fino a raggiungere le docce. “Guarda là” gli fa Matías “Una porta. Vienimi dietro”.  

All'estremità della stanza, nascosta dietro alle docce, un piccolo corridoio con dei grossi bidoni permette l’accesso ad una spessa porta arancione con una vetrata verticale. Attraverso la vetrata si può scorgere un secondo corridoio con diversi scoli sul terreno e degli idranti sul soffitto, alla cui estremità c’è una seconda porta. Poi il buio. Delle spesse tute di plastica arancione giacciono sul pavimento del corridoio. “Non mi piace per niente” dice Mattias a bassa voce. I due lasciano stare, si girano e tornano indietro. Delle esplosioni improvvise rimbombano nella stanza. Dei forti botti, cadenzati, esplodono a intervalli quasi regolari. “Uno Stoner! David sta combattendo!”. I due si lanciano fuori dagli spogliatoi e rimangono immobili per qualche istante, in attesa di sentire altri spari. “Quella porta!” grida Rebecca “Buttala giù!”. Subito Matias assesta un poderoso calcio all’ultima porta della serie, aprendola con facilità. “David!” grida Rebecca attraverso il corridoio buio. Niente. I due accendono le torce e provano a farsi strada nell’oscurità davanti a loro. “Un interruttore, in fondo alla parete!”- “Vai adelante! Ti copro io!”. Rebecca scatta in avanti mentre Matías fa irruzione nella ampia sala che si apre pochi metri dopo il corridoio. Scivola sulle mattonelle cercando di slittare verso l’interruttore, e una volta raggiunto accende le luci. Ma non accade nulla. Riprova ostinatamente, ma niente da fare, quella stanza è buia. “Sono rotte! Un bengala!” -”Non ne ho, sono di sopra!” risponde Matias. “Indietro, via dal corridoio!” grida Rebecca. Dei veloci passi rimbombano nella stanza, come piedi nudi che corrono sulle mattonelle, per poi fermarsi all’improvviso. Un fortissimo respiro fa fermare i due mercenari. Una enorme bestia che respira, nel buio. Sentono l’aria che entra ed esce dai forti polmoni. “Ci sta fiutando!” grida Matias, “fiuta questo, merda!” annuncia prima di schiacciare a fondo il grilletto del suo Galil. Ogni proiettile esploso illumina la stanza per una frazione di secondo, e i due osservano come delle sagome nere, delle figure terrificanti si muovono fuggendo in ogni direzione dallo spazio aperto al centro del salone. Delle bestie allungate, con delle grosse code, bipedi. Un fortissimo grido risponde alle assordanti esplosioni del fucile. Un grido morboso e antichissimo, che fa rivoltare i due dall’interno, riempiendoli di un terrore che l’umanità ha da troppo tempo dimenticato. Un boato così forte e penetrante che Matias smette di sparare, esterrefatto. Rebecca, a terra, sente le mani gelide a contatto col pavimento. Le fissa. Le mani! Si rialza scattando verso matias. Un leggero tonfo proveniente da sopra di loro interrompe il silenzio. Rebecca lo afferra e lo trascina lontano, verso la porta aperta. Esattamente nell’istante in cui lo sposta, una grossa massa cade davanti a Matias ed un suono sordo e terribile esplode davanti alle sue mani. Il suo fucile scompare nell’oscurità, strappato dalla bestia.  

 

“Corri” grida lei mentre Matias guarda esterrefatto il buio. I due entrano nella stanza e subito chiudono la porta, sbarrandola con qualsiasi cosa. “Li ho visti” sussurra Matias, “Li ho visti, non puede ser”.  

-“Cosa hai visto? Cosa sono?”.  

-“Sono dinosauri”.  

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